Un “malessere” ricorrente che appartiene al nostro millennio è la solitudine, lo annovero tra i malesseri perché nella solitudine forzata esiste una liaison continua tra il male, il dolore e il proprio essere. La solitudine porta al malessere se è subita e le si attribuiscono caratteristiche negative, ma la solitudine ha anche accezioni positive e diventa uno stile di vita ricercato, curato, una scelto.
Le persone dicono, “soffro di solitudine”, in quella frase c’è una precisa incapacità, il non sapere stare soli. In quest’ articolo non ci occupiamo delle cause profonde, ragioni fondamentali da indagare nel luogo terapeutico, ma dell’aspetto sociale e contemporaneo della solitudine. Sapere stare soli è un’expertise emotiva necessaria, in un mondo relazionale in cui il contatto dal vivo diventa sempre più frammentato e raro. Il fenomeno abbraccia la generazione dei millenials, ma anche dagli over “40 in su.
Le relazioni si dipanano attraverso chat, post, scambi di foto, call conference, un tempo saturo che si esprime frequentemente senza il contatto, la relazione diretta. Le relazioni sentimentali sono spesso veloci, se fuoco c’è, si brucia dopo poco e manca la capacità di alimentarlo per costruire. I bisogni primari non sono cambiati, e tra i primi si distinguono la sessualità e l’affettività/amore, quello che è cambiato è il tempo di soddisfazione del bisogno. Detto in parole povere, le persone si annoiano con più facilità e aldilà dell’età. Al pieno di contatti, telefonate, messaggi ecc si sostituisce il vuoto nel sentirsi profondamente soli e la disillusione nel non trovare quel che si cerca o si crede di cercare. Si alimenta così la solitudine forzata da un lato perché intorno c’è il vuoto, dall’altro perché nella solitudine si trova uno spazio conosciuto, in cui non si fa fatica a far finta, dimostrare, recitare una parte che sta male, che prova dolore.
C’è un mondo esterno che urla, che si manifesta mettendo in vetrina se stessi e quel che si mangia, si vede, si ascolta, si fa. Bisogna essere belli, belle, andare in vacanza e postare le foto, avere una vita varia e dinamica e se non è così talvolta s’inventa tutto ciò attraverso le menzogne che ben si costruiscono in rete. Se le socializzazioni 2.0 non si esprimono nel reale, nella capacità di esporsi autenticamente, si passa dall’automatismo del touch sul mi piaci, alla noia di una quotidianità evanescente che non appaga.
La noia, se è condizione frequente è sentimento depressivo. Si vive nella ricerca di soddisfare un bisogno d’amore che non è solo bisogno la cui memoria risale spesso all’infanzia, ma il semplice e umano bisogno di avere relazioni di scambio, continuità, curiosità. La precarietà relazionale da un lato e l’abbondanza di contatti dall’altro, sono le basi per una condizione esistenziale che si gioca tra il pieno e il vuoto. La solitudine sofferta è immobilismo perché c’è un esterno che non piace, presentarsi all’esterno è una stonatura, una nota fuori posto. Solitudine perché i mille amici dei social network vivono in altre città o sono presi dal loro chattare più che incontrarsi, solitudine perché le azioni che si ripetono, i copioni dietro ai quali le persone si sono targhettizzate non lasciano spazio alla sorpresa, al gusto della scoperta. Giudizi e pregiudizi fanno piazza pulita ed è sempre più difficile mantenere uno sguardo disincantato, disposto a sorprendersi o ancora di più a sorprendere gli altri. Solitudine non solo perché si è single e ci si sente soli e scomodi nella propria poltrona singola, ma anche perché c’è bisogno di un “abbraccio relazionale”che significa contenimento, accoglienza, o un abbraccio corporeo in grado di staccare il controllo e stare o danzare nel qui e ora.
Solitudine e depressione a volte marciano insieme, la noia è un’espressione. Il binomio solitudine – depressione può minare la propria esistenza, tuttavia la depressione può paradossalmente venire in aiuto. La depressione, se non supera una certa soglia, si presenta in modo alternato-ciclico, dal movimento alla stasi, dalla eccitabilità alla poca reattività. Immaginate la depressione come una linea, tracciate la fase down e poi il momento up. Occorre che sia ben evidenziato quel punto che si crea tra i due momenti, quando ci si rende conto che il pensiero, l’azione si sta trasformando e diventare consapevoli dei propri mutamenti “sfruttare” entrambi, l’up e il down. Occorre quindi nei momenti up farne esperienza affinché lasci traccia nella memoria, e non cada nell’oblio quella energia e vivacità che appartiene alla stessa persona che cade nel torpore depressivo. Nei momenti down, imparare a trasformare la solitudine. Trasformare la solitudine, questo è il punto di partenza per reinterpretarla e viverla come condizione feconda per ritrovare se stessi, ripensare la propria direzione, dare uno spazio alla propria creatività.
In inglese la parola solitudine è declinata come solitude che è la solitudine in cui si sta bene, alla quale si da un valore positivo e loneliness che è il sentirsi soli, occorre conquistare la propria solitude, quello spazio bianco tutto da scrivere e vivere. Conquistare la propria solitude per stare bene in compagnia di se stessi. Da soli non si è mai soli se amiamo il nostro compagno interiore, se amiamo noi stessi. Dentro se stessi, anche in una vita vissuta nelle difficoltà, ci sono ricordi, persone, esperienze, in poche parole risorse alle quali accedere, risorse personali da riconoscere e apprezzare. La depressione nei suoi momenti down si può trasformare in malinconia, in uno sguardo profondo che riesce a vedere oltre le relazioni evanescenti. Attraverso la solitudine si può creare una forza diversa che stabilisce un nuovo ponte con l’esterno, si sceglie senza farsi scegliere, ci si può anche affidare al caso ma partecipando a una vita giocata su un piano reale e non solo immaginativo o da relazioni 2.0
Se s’impara a curare la propria solitudine, la depressione ne sarà grata, è un percorso non breve ma che può portare a un senso di libertà e indipendenza che apre le porte a relazioni più sane e autentiche.
Antonella Galletta, psicologa Milano